Il film

ACIT FILM FORUM: BERLINO

La rassegna cinematografica in lingua originale 2015, organizzata dall’Acit di Alessandria, ci ha permesso di compiere un viaggio, dislocato in periodi storici differenti, tra le molteplici visioni e rappresentazioni che la città di Berlino ha dato di sé, attraverso l’occhio di quattro cineasti (l’ultima, Feo Aladaǧ, di origini turche, a testimoniare la multiculturalità dell’approccio).

Il ciclo ci ha restituito, nell’occasione della ricorrenza dei venticinque anni dal crollo del Muro, non una sola Berlino, ma tante, ciascuna con la propria unicità, circumnavigando, e perfino allontanandosi, in molti casi, dalla visione wendersiana, materialistica e insieme metafisica della città, che pure ha influenzato e continua a influenzare i moduli di racconto di molti registi, anche lontano dall’Europa.

Kuhle Wampe o A chi appartiene il mondo?, di Slatan Dudow (1932), su sceneggiatura di Bertolt Brecht, ci ha portati in una Berlino sofferente per la grande Depressione di quegli anni, ancora molto distante dall’edificazione del Muro; nella quale, però, affondano le proprie tentacolari radici quelle istanze, quelle contingenze economiche, politiche e sociali determinanti per lo scoppio del secondo conflitto mondiale e, in seguito, della Guerra Fredda, che sono state le principali responsabili della divisione, prima ideologica e poi materiale, tra le due parti della città.

Il signor Lehmann, di Gerhard Klein (2003), unica commedia del ciclo, ci ha sbalzati, non senza una punta di autoironia venata di amarezza, nei giorni immediatamente precedenti il crollo del Muro (il compleanno dell’eccentrico protagonista, il giovane Lehmann, ricorre proprio il 9 novembre 1989), per le strade notturne e i locali frequentati da una gioventù inquieta, insoddisfatta, molto influenzata (come anche nel successivo Berlino-Angolo Schönhauser) dal cinema e dalla cultura occidentale: consapevole, ma ancora un po’ confusa riguardo le nuove libertà, le possibilità di trasformazione personale e collettiva che l’avvenuta riunificazione comporterà.

Berlino-Angolo Schönhauser, di Gerhard Klein (1957), uno tra i migliori film mai prodotti dalla DEFA, la casa di produzione cinematografica della DDR, ci ha condotti, invece, sotto le arcate di uno dei crocevia più conosciuti di Berlino, nel quartiere di Prenzlauer Berg, pochi anni prima della costruzione del Muro; che diviene, dunque, in questa storia, un simbolo in assenza, eppure egualmente tangibile. Qui, in questo angolo e in questa parte di Berlino rimasti sino a un ventennio fa molto simili a come vengono rappresentati nel film, così vicini al teatro dove, con qualche mese di anticipo sui fratelli Lumière, i fratelli Skladanowsky proiettarono alcuni documentari di Edison, si incontra e si smarrisce la gioventù del Settore Est, divisa tra la durezza della realtà quotidiana e il sogno di libertà.

L’estranea, infine, opera prima della regista Feo Aladaǧ (2010), conclude il viaggio nella Berlino del presente e del futuro, raccontando una drammatica storia femminile di difficoltà d’integrazione,    ambientata e girata tra Istanbul e la capitale tedesca, sede della più grande comunità turca d’Europa. La giovane attrice protagonista, Sibel Kekilli, già straordinaria interprete de La sposa turca, di Fatih Akin (2004), esprime con grande intensità di recitazione la tragedia di una condizione femminile che trova nel senso di appartenenza alla propria etnia le radici della sofferenza e del disadattamento.

Berlino, lo sa anche chi non c’è mai stato, è una città dalle molte stratificazioni di passato e di memoria, spesso caoticamente intrecciate le une con le altre; ed è anche una città che deve continuamente fare i conti con la propria storia. Eppure, come afferma Wim Wenders, «Berlino è una città che rimanda continuamente al futuro, che ci spinge in avanti…Berlino è l’ultimo atto. Il resto è preistoria. Se storia ci sarà, Berlino sarà l’inizio».

 

Barbara Rossi

 

Resistenza, ultimo sguardo: da “I piccoli maestri” di Daniele Luchetti a “L’uomo che verrà” di Giorgio Diritti


«Ecco una cosa che ho capito: che molti vogliono ammazzare qualcun altro, ma io non capisco perché» (L’uomo che verrà)
«Fare i conti col passato va bene, ma prima o poi bisogna chiuderli, no?» (I piccoli maestri)

Chiudere i conti col passato: legittimo desiderio, insopprimibile necessità dei singoli come delle diverse forme di organizzazione sociale e civile in cui, nel corso della storia, l’uomo ha incanalato e strutturato la propria spinta vitale. Per quanto riguarda il fenomeno della Resistenza italiana - quei venti mesi compresi tra la firma dell’armistizio dell’Italia con le forze anglo-americane alleate, l’8 settembre 1943, e, all’incirca, l’inizio del maggio 1945 - chiudere o, più modestamente, fare i conti con ciò che è stato, sul piano storico, sociale, culturale e umano, è impresa ardua, per la sua estrema complessità e per la difficoltà, comune alla maggior parte degli apparati politico-ideologici del Paese via via succedutisi (e a dispetto della loro eterogeneità) a guardare a quell’esperienza con occhio non inquinato.
Di conseguenza, anche la rappresentazione cinematografica del periodo resistenziale ha attraversato, analogamente al giudizio storico-critico su di esso, fasi alterne e spesso in contraddizione fra loro, a partire dall’immediato dopoguerra sino ai giorni nostri.
La riflessione filmica sulla Resistenza sembra affondare le proprie radici nel terreno già fervido e variegato del cinema neorealista, anch’esso espressione di differenti istanze ideologiche e culturali: ciò che accomuna pellicole anche molto eterogenee fra loro è, innanzitutto, l’esplicita volontà di distacco - sia sul piano contenutistico che estetico - dalla cinematografia precedente, espressione del regime, propagandistica o velleitariamente d’evasione, a favore di narrazioni che esplicitassero la presa di coscienza, l’azione di riscatto, soprattutto a livello popolare, dalle maglie oppressive del governo fascista.
Qualche cosa di simile avveniva, fatte salve le debite differenze, nella società italiana che si apprestava alla ricostruzione, sostando in equilibrio precario sulle macerie ancora fumanti della guerra. Come spiega Claudio Pavone: «[…] credo che indubbiamente un lascito lo si possa individuare nella scoperta della pluralità delle voci, anche se poi questo valore ha subito, nella vita politica, delle degenerazioni sino a trasformarsi in “lottizzazione”. […] perché allora rappresentava soprattutto la rottura del monopolio totalitario del potere: prima erano tutti fascisti, e ora tutti noi che abbiamo partecipato alla Liberazione abbiamo diritto ad essere rappresentati. E questo ha lasciato una eredità, che non è solo lo strascico degenerato attuale, è anche il fatto che si è affermata l'idea che tutti hanno diritto di parlare e di farsi sentire. […] Resta però il fatto che si lascia in eredità l'idea che le cose possano cambiare». 
Emblematiche, in questo contesto, si rivelano - come sappiamo - opere quali Roma città aperta (1945) e Paisà (1946), di Roberto Rossellini (quest’ultima definita da Morando Morandini «un potente affresco collettivo»): «[…] Specchio di una realtà come colta nel suo farsi, appare oggi come un’opera ibrida in cui il nuovo convive col vecchio, i grandi lampi di verità con momenti di maniera romanzesca, in bilico tra lirismo epico e retorica populista.
La stessa lotta antifascista è raccontata ponendo l’accento sul piano morale più che su quello politico, il che non gli impedì di essere il film giusto al momento giusto e di indicare attraverso le figure del comunista e del prete di borgata il tema politico centrale dell’Italia nel dopoguerra».
Se in Roma città aperta «Viene descritta con toni rapidi e concisi, con il susseguirsi ritmato degli avvenimenti la vita di una comunità, le sue vicende quotidiane, la sua volontà di liberazione dai tedeschi, in un crescendo in cui tutti sono protagonisti ed hanno un ruolo», è anche vero che il limite di questa operazione - comune alla maggior parte degli altri film “resistenziali” di questa fase e, ancor più, di quella successiva - sta nella rappresentazione della lotta partigiana nella sua valenza esclusiva di reazione contro l’oppressore straniero. Di là da venire il riconoscimento di vera e propria guerra civile (difficile da metabolizzare ancora oggi, nell’attualità delle nostre vicende nazionali), l’immagine della Resistenza è quella del conflitto di un popolo aspirante alla libertà, in cui l’amalgama e il livellamento tra opposte fazioni politiche e ideologiche sono massimi. Rare eccezioni, in questo senso, vengono da film come Il sole sorge ancora - 1946 - di Aldo Vergano (che nel realismo documentario della narrazione compone un affresco anche sociale dell’Italia occupata) e Achtung! Banditi! di Carlo Lizzani (1951), che - a suo modo - conclude, con il coraggio di una descrizione lucida e antiretorica della gioventù partigiana, la prima fase della cinematografia resistenziale, prima che la cosiddetta “normalizzazione”, operata dal governo centrista nel decennio appena iniziato, riconduca la vicenda storica nell’alveo inoffensivo di retoriche celebrazioni nazionalistiche.                      
Il film di Lizzani si presenta quindi come ultimo prodotto di una cinematografia che, iniziata con Roma città aperta, era stata sostenuta da una grande tensione emotiva. È in fondo una sorta di bilancio di quanto è stato fatto, una rimeditazione sul tipo di approccio, senza però aperture sul futuro. «[...] Vi è lo stesso rifiuto di una visione epica del periodo e lo sforzo di darci una interpretazione della resistenza che mette in evidenza gli aspetti politici e sociali. Come egli stesso dice, il suo è un “modo di interpretare, concretamente, il fenomeno storico”. [...]. Un tema che Lizzani affronta è quello delle ragioni di lotta: dalle discussioni che si svolgono nella baita, dai frammenti delle singole vicende che emergono dal dialogo viene fuori un ritratto antiretorico e realistico dei giovani che hanno deciso di prendere le armi e combattere. Sono persone comuni, non vi sono eroi; alcuni anzi hanno ancora dei dubbi, altri sono andati in montagna per evitare la leva, una coscienza politica approfondita è presente solo in pochi. Sarà l’esperienza della guerriglia a dare un senso concreto alle scelte dei giovani». 
In sintonia con le forme e i contenuti della narrazione proposta dal film di Lizzani troviamo, fra i rarissimi esempi degli anni Cinquanta, Gli sbandati di Francesco Maselli (1955): per entrambi è possibile istituire un parallelo con espressioni della cinematografia resistenziale più recente, in modo particolare con I piccoli maestri di Daniele Luchetti (1997), e - seppure in misura minore - con Il partigiano Johnny di Guido Chiesa (2000), principalmente per lo sguardo attento a cogliere la confusione e le incertezze esistenziali della generazione che scelse di entrare nei quadri della Resistenza.
Per il resto, il decennio dei Cinquanta, diviso a livello politico tra tentativi di “normalizzazione” e feroci campagne diffamatorie - condotte anche a livello giudiziario - nei confronti di un movimento partigiano accusato di essersi macchiato di colpe eguali, se non maggiori, di quelle fasciste (in un evidente tentativo di delegittimazione che prosegue anche nel corso degli anni Sessanta, sino alla svolta liberatoria del 68’ e all’avvento dei governi di sinistra in Italia alla metà dei Settanta),
non contribuisce in maniera intensiva all’elaborazione di nuove immagini filmiche sulla Resistenza, se escludiamo il filone, sempre vivo e consapevole, del documentario.
Il 1960 si apre, invece, con tre opere (Era notte a Roma di Roberto Rossellini, La lunga notte del ’43 di Florestano Vancini e Tutti a casa di Luigi Comencini, introdotte, l’anno precedente, da Il generale della Rovere, sempre di Rossellini, e Kapò di Gillo Pontecorvo) che sembrano voler riportare al centro della scena e dell’interesse nazionale la lotta antifascista in tutte le sue forme, in una rinnovata ansia, soprattutto della nuova generazione che si appresta a vivere attivamente l’imminente trasformazione sessantottesca, di conoscere e giudicare al di fuori di ogni retorica. 
Un’ansia che accomunerà - come vedremo - la generazione post-Sessantotto (e gli autori cinematografici cresciuti nel fervore di quel periodo) e quella odierna, dei figli (e, in qualche caso, addirittura dei nipoti), nell’ambito di un ripensamento generale dell’esperienza del fascismo, della guerra e di ciò che ne scaturì.    
Così scorrono gli anni Sessanta cinematografici, ricchi di titoli e di tentativi di raccontare la Resistenza in forme nuove, o attraverso punti di vista inediti: pensiamo, solo per fare due esempi, a Tiro al piccione di Giuliano Montaldo (1961), che indaga l’esperienza dei soldati repubblichini, ponendoli al centro della storia (analogamente a quanto farà, nel 1984, Marco Tullio Giordana con Notti e nebbie, dal romanzo di Carlo Castellaneta); e a Il terrorista di Gianfranco De Bosio (1963), che accomuna nell’analisi Resistenza e lotta armata, sullo sfondo di un centro urbano come Venezia.
Per comprendere appieno l’ultimo sguardo cinematografico sul fenomeno resistenziale - a partire dalla fine degli anni Novanta ad anni recenti - è necessario partire proprio dalla volontà di rielaborazione storica, dall’evoluzione del pensiero, dai tentativi di ampliamento dell’orizzonte critico che hanno avuto inizio fra gli anni Sessanta e i successivi Settanta: da film come Il sospetto di Francesco Maselli (1975), e L’Agnese va a morire di Giuliano Montaldo (1976, dal romanzo della partigiana Renata Viganò: la storia della contadina di Comacchio che diventa una staffetta partigiana, la stessa ambientazione, introducono una rilettura della Resistenza dalla parte degli umili che Giorgio Diritti riproporrà nel suo L’uomo che verrà, 2009). 
Gli anni Ottanta cinematografici non faranno che sviluppare ulteriormente questo processo, ma - in parallelo - fungeranno da specchio rifrangente un atteggiamento del tutto opposto: ossia la tendenza, in seno agli apparati governativi e, più genericamente, alla società dell’epoca, ad un’ambigua proposta di “pacificazione” tra oppressi e oppressori, vincitori e vinti, opposti schieramenti, sotto l’egida di «una rilettura edulcorata del fascismo, che ne riabilitava l’immagine, dipingendolo come un “autoritarismo all’italiana”, retorico e velleitario, ben distinto dal truce totalitarismo nazista; come un regime bonario e paternalista, che aveva accelerato la modernizzazione del paese godendo a lungo di un vasto consenso fra gli italiani». 
Questa falsificazione, insieme al tentativo di ridurre la Resistenza a semplice azione di guerriglia tra due opposte fazioni, condurrà - nel corso degli anni Ottanta e oltre - a un vero e proprio “revisionismo mediatico”, come afferma Vercelli: che si esprimerà, con l’affermazione del predominio del piccolo schermo su quello cinematografico, in una nutrita serie di film televisivi riabilitanti la figura di Mussolini (da Claretta di Squitieri, 1984, a Io e il duce di Negrin, 1985, aventi entrambi come lontano punto di riferimento Mussolini, ultimo atto di Lizzani, 1974).
A tali strettoie creative sfugge, nei primi anni Ottanta, un film di rara bellezza, La notte di San Lorenzo dei Taviani (1982), in cui già si ritrova quella dimensione memoriale che caratterizzerà, di lì a pochi anni, sia I nostri anni di Daniele Gaglianone (2001) che il già citato L’uomo che verrà.
E’ proprio a cavallo dei due decenni sospesi fra la fine del ventesimo e l’inizio del ventunesimo secolo che viene maturando, nel cinema, quel nuovo, più consapevole e attento approccio alle tematiche resistenziali che affonda le proprie radici nel cinema d’impegno sociale e civile di fine anni Sessanta e dell’intero decennio dei Settanta.
A partire, nell’ambito della storiografia sulla Resistenza, dalla piccola, fondante rivoluzione copernicana del testo dello storico ed ex partigiano Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (1991), in cui per la prima volta viene sdoganata la definizione - mai osata in passato e mal accolta anche al momento della pubblicazione dello studio - di “guerra civile”, proposta sino a quel momento, con evidenti scopi devianti, solo dalle posizioni critiche di chiara ispirazione fascista. 
E’ sul finire degli anni Novanta che - preceduto da un piccolo gruppo di pellicole che già si pongono, pur con alcuni limiti di fondo, nella direzione di un’indagine sul passato il più possibile scevra di retorica come di facili estremismi (vedi Il caso Martello di Guido Chiesa, 1991, Nemici d’infanzia di Luigi Magni, 1995, e Porzus di Renzo Martinelli, 1997), esce nelle sale I piccoli maestri di Daniele Luchetti (1997), tratto dall’omonimo romanzo di Luigi Meneghello (1964).
Con I piccoli maestri Luchetti inizia quell’operazione memoriale sulla Resistenza - condotta soprattutto attraverso il filtro dei ricordi della generazione di chi, all’epoca, era poco più che ventenne - che caratterizzerà negli anni a seguire la maggior parte delle pellicole sul tema.
Il film racconta, in maniera abbastanza asciutta e incisiva, senza indulgere a retoriche e sentimentalismi ma neppure annullando totalmente l’espressione delle emozioni dei protagonisti della storia, il percorso “bellico” ed esistenziale di un gruppo di amici e studenti universitari vicentini (i “piccoli maestri” del titolo) che nell’autunno del 1943 decidono di unirsi alle file dei partigiani combattenti sull’altopiano di Asiago. A Gigi (Stefano Accorsi), Simonetta (Stefania Montorsi) e Enrico (Giorgio Pasotti), legati fra loro da vincoli sentimentali oltre che ideologici, si uniranno altri ragazzi, con il comune intento di «…resistere, con le parole, con l’intelligenza, ma anche con le armi…ne va della nostra libertà e dei nostri figli…l’Italia vera adesso siamo noi». 
Nel corso di un lungo inverno sulle montagne, sino alla liberazione di Padova poco prima dell’arrivo delle forze alleate, sperimenteranno il vero volto della lotta di liberazione, il dolore, la morte, la fatica e il senso di inutilità, di scacco e di sbandamento nei confronti di una realtà feroce e troppo idealisticamente intesa.
Vero e proprio romanzo di formazione (analogamente al Partigiano Johnny di Chiesa), I piccoli maestri mette in luce, oltre alla confusione generale che albergava tra le diverse file della Resistenza (con il frequente passaggio dei giovani partigiani da un gruppo con una determinata coloritura politica a un altro, solo per ragioni di contingenza), l’onestà morale e intellettuale, il bisogno di coerenza e di eticità di una generazione che si è trovata, senza alcun preavviso ma con un enorme spinta all’azione, coinvolta in una vicenda complessa e multistratificata, ancora oggi difficile da collocare nell’alveo delle vicende di quel momento storico. 
La pellicola, giudicata dalla critica appena un po’ meno incisiva, in alcuni passaggi, rispetto al romanzo di Meneghello («...Nel film soltanto la battaglia conclusiva in piazza e l'arrivo degli inglesi risultano goffi; rispetto al libro di Meneghello, mancano lo spirito e il linguaggio veneti, l'essenza della “guerra per bande” come l'intendeva Mazzini, i radicali dubbi politici. Manca pure la vitalità crudele della prima giovinezza: gli interpreti, tra i quali Stefano Accorsi è il migliore, avranno una decina d'anni più dei personaggi, e questo fa una differenza»; Lietta Tornabuoni, “La Stampa”, 8 settembre 1998), sospende - come, del resto, le altre opere degli anni successivi - ogni giudizio morale, mantenendosi in territorio neutro rispetto agli eventi descritti.
Il nemico, lo straniero, è quasi sempre una figura fantasmatica, incombente ma dai contorni irregolari (analogamente a Il partigiano Johnny) e non viene commesso l’errore di cadere in una caratterizzazione troppo spinta e stereotipata, già proposta a più riprese dalla cinematografia precedente.
Significativo è il dialogo finale tra Gigi e Marietto (Massimo Santelia), nel quale si adombra la coscienza comune dell’irripetibilità dell’esperienza, nonostante la sua ormai evidente drammaticità: «Ho l’impressione che da adesso in poi non avremo più niente di meglio dalla vita».
Per certi versi affine, nella modalità di sguardo, a I piccoli maestri ma, nello stesso tempo, con una propria, spiccata fisionomia (a dispetto della derivazione letteraria, piuttosto fedele, dal romanzo incompiuto e omonimo di Beppe Fenoglio, 1968, e dal precedente Primavera di bellezza, 1959), risulta anche Il partigiano Johnny, «un progetto fortemente desiderato e voluto» per stessa ammissione del regista Guido Chiesa, che prosegue: «con il passare del tempo il centro della mia attenzione si è spostato sulla “questione privata”, sull'odissea umana narrata da Fenoglio, ovvero sul suo faticoso e quotidiano farsi uomo nel tragico scenario della caduta del fascismo e della guerra».
Ci troviamo di fronte a un ulteriore racconto di formazione, quindi, modellato su di una stretta attinenza all’opera fenogliana (cui fanno riferimento, ad esempio, i passaggi con le citazioni del protagonista in lingua inglese), in cui ancora una volta si mettono in scena episodi, atmosfere e umori del periodo resistenziale attraverso la mediazione della letteratura e di un personaggio (Johnny, lo studente di letteratura inglese dietro cui si nasconde l’autore stesso, che con grande rigore morale porta avanti la propria scelta partigiana sino alle estreme conseguenze, a due soli mesi dalla fine del conflitto) intorno al quale tutto ruota. 
Anche Johnny (uno Stefano Dionisi la cui recitazione quasi “in sordina” è estremamente efficace e matura) come i ragazzi de I piccoli maestri, è incerto, smarrito («parto in un mare di dubbi»), ma - a differenza dei primi - coltiva una maggiore consapevolezza di se stesso e di come andrà a finire («Era la sua fine, e prima o poi sarà anche la mia fine, altrimenti che devo pensare di me? E’ solo una questione di date»).
La macchina da presa segue da vicino il suo percorso, anche geografico, nelle Langhe care a Fenoglio, nel profondo delle forre, nell’umidità nebbiosa e nel lucore della neve, con movimenti sconnessi, e una fotografia “sporca” giocata sui toni del grigio e del marrone.
Quello di Johnny è un itinerario di solitudine e di onestà intellettuale, specialmente se messo a confronto con l’opportunismo di alcuni suoi compagni di lotta: per la quasi totalità non è la fede politica che fa abbracciare la lotta armata («tu sei comunista? Io? Io sono solo contro i fascisti, il resto non mi interessa»), ma - come ne I piccoli maestri - la volontà di cambiare uno stato di cose ritenuto inaccettabile.
Le magagne e gli errori delle formazioni partigiane non vengono dissimulati da Chiesa che si mantiene, tuttavia - come Luchetti - a distanza da giudizi e interpretazioni retrospettive, limitandosi a documentare situazioni e stati d’animo («per evitare faziosità e strumentalizzazioni, per non cadere nella retorica resistenziale, smussa, sfuma, interiorizza ogni conflitto finendo per risultare un po' esangue...», scrive Fabio Ferzetti su “Il Messaggero”, 5 settembre 2000).                  
Somewhere over the rainbow, infine, le cui note accompagnano il lungo peregrinare invernale di Johnny attraverso un paesaggio collinare che pare quasi inglobarlo in sé, nelle proprie viscere, rimane l’unica concessione a un sogno di pacificazione che pare irrimediabilmente frangersi e irrigidirsi, subito dopo, nella fissità raggelante di un fermo immagine che consegna la vicenda umana del giovane partigiano alla storia collettiva dei nostri anni.
I nostri anni, significativamente, è anche il titolo cui Daniele Gaglianone affida l’emblematica sintesi dell’esperienza resistenziale che ha tramortito e sconvolto le vite dei due anziani amici (realmente) ex partigiani Alberto (Virgilio Biei) e Natalino (Piero Franzo): il quale fa filtrare, però, anche una semantica più allargata, in cui si concentra il messaggio del film.
«Sui monti ci sentivamo liberi, ci sentivamo una cosa sola con gli alberi, le pietre, i fiumi. Sembrava che tutto fosse lì solo per te. L’aria aveva un altro odore, ed è quello che dopo ti frega: basta respirare quell’aria una sola volta che ti sembra di soffocare per tutto il resto della vita. Non te lo dimentichi più».
Si soffoca, infatti, nella pellicola di Gaglianone: vittime e carnefici non riescono a respirare, nella medesima maniera. Soffoca Alberto, vagante e smarrito all’inizio della storia, tra stazione e binari, tra voci, volti, abbagli e ombre della propria memoria, sino all’incontro - nell’ospizio di cui è stralunato ospite - con Umberto.
Soffoca lo stesso Umberto, ex ufficiale fascista, piegato, con il respiro mozzo, su di una sedia a rotelle, e Natalino, che vive da lupo solitario sulle montagne piemontesi, dove ha combattuto da ragazzo.
I tre, per uno di quegli strani scherzi del destino, si ritrovano insieme, per una sorta di ultimo rendez vous: e, alla fine, è la marea prepotente del ricordo che arriva a soffocare anche chi guarda.
I nostri anni, come un film surrealista, a guisa di un novello Un chien andalou, è un’opera onirica, astratta, che mescola frammenti, di sogni, di memorie, di visioni interiori e paesaggi reali, in un continuo andirivieni spaziale e temporale: una sorta di lungo flusso di coscienza che viene esteriorizzato da una fotografia (dell’ottimo Gherardo Gossi) in bianco e nero, sgranata e tremolante come nei vecchi filmini in super otto, da un montaggio non consequenziale, dalla sovrapposizione di voci, ansimi, rumori, da un doppiaggio fuori sincrono, in una saturazione totale dell’immagine, ai limiti della leggibilità.
Come scrive Alessandra Levantesi: «Pur esprimendo un preciso punto di vista (nella linea di Norberto Bobbio, nessun dubbio su qual è la parte giusta), il giovane cineasta non è particolarmente interessato a evidenziare gli aspetti ideologici-politici del tema resistenziale. A stargli a cuore sono piuttosto i suoi due protagonisti: in quanto custodi di una memoria di cui si vanno cancellando le tracce; e in quanto portatori del segno di un vissuto vero e di un palpito giovanile che nella nostra apatica società non vibra più».
La storia, amarissima, si chiude su dei sorrisi, quelli di Alberto e Natalino (quello dell’amico Silurino nella loro memoria), che sembrano farsi beffe di una società e di una storia che li ha rapidamente dimenticati: «Lo spirito della Resistenza! Oggi tutta questa storia interessa poco a noi che l’abbiamo vissuta, figuriamoci agli altri! Non è rimasto niente. Lapidi, corone rinsecchite, bei discorsi. Non frega più niente a nessuno…».
Eppure Gaglianone, come Luchetti, Chiesa e Diritti, sembra voler andare, sotto questo aspetto, “in direzione ostinata e contraria”: nel recupero (anche a livello estetico e parzialmente neorealista) di una dimensione memoriale mondata dal tempo che ci separa da quegli eventi.
Il senso dell’operazione, non solo filmica, sta nella chiusa che leggiamo a I nostri anni: «I nostri anni sono passati come una storia che ci è stata raccontata e il luogo dove accaddero queste cose non ne serberà traccia». La stessa considerazione proviene, a distanza di anni, dall’ultimo film del maestro Ermanno Olmi, con il racconto della Grande Guerra (Torneranno i prati, 2014): «Dopo una disfatta, tutti tornano a casa loro e dopo un po’ tornerà l’erba sui prati…». 
Contro la tentazione della rimozione e dell’oblio - come sottolinea con forza anche Margarethe Von Trotta nel suo Hannah Arendt (2014) - non vale soltanto la forza del ricordo, ma anche quella del pensiero, della riflessione su ciò che è stato. Quella che permea, fuor di retorica, il racconto dell’eccidio di Monte Sole in provincia di Bologna (la strage di Marzabotto, avvenuta tra il 28 settembre e il 5 ottobre 1944 ad opera dei nazi-fascisti sulle popolazioni civili), di cui Giorgio Diritti mostra i prodomi ne L’uomo che verrà («volevo far fare agli spettatori un viaggio nel 1944»). 
«Succede ancora. Ogni tanto un regista allergico alle convenzioni soffia via la polvere da pagine che credevamo di sapere a memoria. Quanti film abbiamo visto sugli orrori nazisti? Quante stragi, quanti rastrellamenti, quanti tedeschi urlanti in armi? L'uomo che verrà di Giorgio Diritti è il contrario di tutto questo. Non la ricostruzione di una pagina di Storia, con tutte le maiuscole e il kitsch del caso, ma il prodursi di un evento che sembra accadere sotto i nostri occhi per la prima volta.
È ciò che il cinema cerca di fare quasi sempre, non riuscendoci quasi mai. [...]». 
La storia è vista (letteralmente, perché non parla dalla prematura morte di un fratellino) e narrata in voice over da Martina (Greta Zuccheri Montanari), una bambina di otto anni che vive, tra solitudine e momenti corali, il quotidiano trascorrere del tempo di una comunità contadina alle pendici del Monte Sole: le favole magiche e spaventose ascoltate d’inverno nella stalla, mentre le donne intrecciano fascine; la neve che cade di notte, dal cielo plumbeo; le rondini che tornano a percorrere il cielo in primavera; il giorno in cui si uccide il maiale e quello in cui si cuce il vestito per la prima comunione. E’ una comunità al femminile, quella di Martina, dove gran parte di quello che accade passa attraverso gli sguardi (e le parole, pronunciate in dialetto bolognese) della nonna, della mamma Lena (Maya Sansa), della zia Beniamina (Alba Rohrwacher), che Diritti filma con quel ritmo lento, quell’attenzione alle azioni minime e quel rispetto che l’esperienza dell’olmiana Ipotesi Cinema gli ha lasciato. 
Scrive Martina in un tema: «I tedeschi hanno le armi e sparano contro il nemico, che non so chi è»; e così Armando, il papà di Martina, in risposta al padrone del podere che coltiva («è la Storia che è piena di guerre…»), sbotta: «chi se ne frega della Storia e di chi la fa? Che storia è questa?». Diritti ritrae, come stando in punta di piedi su una soglia ma anche con grande eppure delicata partecipazione emotiva, l’inconsapevolezza: dei civili prima di tutto, e poi delle milizie partigiane, le cui azioni mettono in serio pericolo le vite degli abitanti della valle, e forse anche quella dei soldati semplici tedeschi, che Martina e suo padre trovano a giocare con delle uova in cucina, passando nei loro occhi quando gli viene intimato di far fuoco su donne e bambini.
Un’inconsapevolezza tragica, comune alle altre storie sulla Resistenza raccontate dalle pellicole dell’ultimo decennio prese in esame, cui fa il paio un’altra questione, evidenziata dalla battuta lapidaria di un comandante nazista: «è una questione di educazione: tutti noi siamo ciò che ci hanno insegnato ad essere».  
Come sarà, che cosa diventerà, allora, “l’uomo che verrà”? Per capirlo e, nello stesso tempo, per continuare a mantenere vivo nella memoria ciò che è avvenuto, forse il miglior modo è quello di cullarlo e di prestargli ascolto, come fa Martina nell’ultima inquadratura del film. 

Barbara Rossi 


Bibliografia
                                      
Borioli, Daniele - Botta, Roberto, Sulla moralità nella Resistenza. Conversazione con Claudio Pavone, in “Quaderno di storia contemporanea”, Isral, Istituto Storico della Resistenza di Alessandria, n. 10, 1991
Cereja, Federico, La cinematografia sulla Resistenza nella storia italiana (1944-1964), in AA.VV., Cinema, storia, Resistenza (1944-1985), Franco Angeli, Milano, 1987
Focardi, Filippo, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 ad oggi, Laterza, Roma, 2005
Morandini, Morando, Il Morandini 2013, Zanichelli, Bologna, 2012
Pavone, Claudio, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 1991
Vercelli, Claudio, Cinema resistente: uno sguardo d’insieme sulla Raffigurazione della Resistenza dal dopoguerra ad oggi, in “Asti contemporanea”, rivista dell'Israt, Istituto Storico della Resistenza di Asti, n. 11, 2005 

Filmografia
Roma città aperta 
Regia: Roberto Rossellini; interpreti: Anna Magnani, Aldo Fabrizi, Marcello Pagliero, Vito Annichiarico, Nando Bruno; origine: Italia, 1945; durata: 100’.
Il sole sorge ancora 
Regia: Aldo Vergano; interpreti: Elli Parvo, Massimo Serato, Lea Padovani, Vittorio Duse, Carlo Lizzani, Gillo Pontecorvo, Checco Rissone, Giuseppe De Santis; origine: Italia, 1946; durata: 82’.
Paisà 
Regia: Roberto Rossellini; interpreti: Carmela Sazio, Robert Van Loon, Benjamin
Emmanuel, Harold Wagner, Merlin Berth, Alfonsino Pasca; origine; Italia, 1946; durata: 124’. 
Achtung! Banditi! 
Regia: Carlo Lizzani; interpreti: Gina Lollobrigida, Andrea Checchi, Lamberto
Maggiorani, Vittorio Duse, Giuseppe Taffarel, Giuliano Montaldo; origine: Italia, 1951; durata: 100’.   
Gli sbandati 
Regia: Francesco Maselli; interpreti: Lucia Bosé, Isa Miranda, Jean-Pierre Mocky,
Antonio De Teffè, Giuliano Montaldo, Ivy Nicholson, Joop van Hulzen, Terence Hill, Dori Ghezzi; origine: Italia, 1955; durata: 102’. 
Il generale della Rovere 
Regia: Roberto Rossellini; interpreti: Vittorio De Sica, Hannes Messemer, Vittorio
Caprioli, Mary Greco, Lucia Modugno, Sandra Milo, Giovanna Ralli; origine: Italia, 1959; durata: 132’.
Kapò
Regia: Gillo Pontecorvo; interpreti: Susan Strasberg, Laurent Terzieff, Emmanuelle Riva, Didi Perego, Gianni Garko, Paola Pitagora, Annabella Besi, Graziella Galvani;  origine: Italia, Francia, Jugoslavia, 1959; durata: 118’.  
Era notte a Roma 
Regia: Roberto Rossellini; interpreti: Peter Baldwin, Laura Betti, Sergei Bondarchuk, Sergio Fantoni, Hannes Messemer, Giovanna Ralli, Enrico Maria Salerno, Renato Salvatori, Paolo Stoppa; origine: Italia, 1960; durata: 120’. 
La lunga notte del ’43 
Regia: Florestano Vancini; interpreti: Belinda Lee, Gabriele Ferzetti, Enrico Maria
Salerno, Andrea Checchi, Nerio Bernardi, Isa Querio, Raffaella Carrà, Loris Bazzocchi; origine; Italia, 1960; durata; 106’.  
Tutti a casa 
Regia: Luigi Comencini; interpreti: Alberto Sordi, Eduardo De Filippo, Serge
Reggiani, Martin Balsam, Carla Gravina, Didi Perego, Claudio Gora, Mario Feliciani, Mac Ronay; origine: Italia, 1960; durata: 120’. 
Tiro al piccione 
Regia: Giuliano Montaldo; interpreti: Jacques Charrier, Sergio Fantoni, Gastone
Moschin, Francisco Rabal, Eleonora Rossi Drago, Franca Nuti; origine: Italia, 1961; durata: 114’.  



Il terrorista 
Regia: Gianfranco DeBosio; interpreti: Gian Maria Volonté, Philippe Leroy, Roberto
Seveso, Giulio Bosetti, Tino Carraro, José Quaglio, Raffaella Carrà, Franco Graziosi, Anouk Aimée; origine: Italia-Francia, 1963; durata: 100’.  

Mussolini, ultimo atto 
Regia: Carlo Lizzani; interpreti: Rod Steiger, Franco Nero, Lisa Gastoni, Lino
Capolicchio, Giuseppe Addobbati Manfred Freiberger, Umberto Raho, Henry Fonda; origine: Italia, 1974; durata: 125’. 
Il sospetto di Francesco Maselli 
Regia: Francesco Maselli; interpreti: Gian Maria Volonté, Annie Girardot, Renato
Salvatori, Gabriele Lavia, Felice Andreasi, Franco Balducci, Luciano Bartoli; origine: Italia, 1975; durata: 115’. 
L’Agnese va a morire
Regia: Giuliano Montaldo, dal romanzo di Renata Viganò; interpreti: Ingrid Thulin, Stefano Satta Flores, Michele Placido, Aurore Clément, Ninetto Davoli, William Berger, Flavio Bucci, Rosalino Cellamare, Aldo Reggiani; origine: Italia, 1976; durata: 135’.  
La notte di San Lorenzo
Regia: Paolo e Vittorio Taviani; interpreti: Omero Antonutti, Margarita Lozano, Claudio Bigagli, Miriam Guidelli, Enrica Maria Modugno, Sabina Vannucchi, Paolo Hendel, Giorgio Naddi, Renata Zamengo; origine: Italia, 1982; durata: 105’. 
Claretta 
Regia: Pasquale Squitieri; interpreti: Claudia Cardinale, Giuliano Gemma, Caterina Boratto, Fernando Briamo, Nancy Brilli, Miriam Petacci, Angela Goodwin, Maria Mercader, Catherine Spaak; origine: Italia, 1984; durata: 127’. 
Notti e nebbie (film per la televisione)
Regia: Marco Tullio Giordana, dal romanzo di Carlo Castellaneta; interpreti: Umberto Orsini, Laura Morante, Senta Berger, Eleonora Giorgi, Gerardo Amato, Maurizio Donadoni, Gerard Desarthes, Massimo Foschi; origine: Italia, 1984; durata: 160’.  
Io e il duce 1985 (film per la televisione)
Regia: Alberto Negrin; interpreti: Bob Hoskins, Susan Sarandon, Anthony Hopkins, Annie Girardot, Barbara De Rossi, Massimo Dapporto, Vittorio Mezzogiorno, Kurt Raab; origine: Italia, 1985; durata: 120’.  
Il caso Martello
Regia: Guido Chiesa; interpreti: Felice Andreasi, Giorgio Bucassi, Valeria
Cavalli, Luigi Diberti, Bruno Gambarotta, Alberto Gimignani, Vittoria Lottero, Ivano Marescotti; origine: Italia, 1991; durata: 92’. 
Nemici d’infanzia 
Regia: Luigi Magni; interpreti: Renato Carpentieri, Paolo Murano, Giorgia Tartaglia,
Nicola Russo, lena Berera, Elodie Treccani, Gregorio Gandolfo, Luigi Diberti, Diego Cipolletti, Stefano Gianfico; origine: Italia, 1995; durata: 106’. 
I piccoli maestri 
Regia: Daniele Luchetti, dal romanzo di Luigi Meneghello; interpreti: Stefano Accorsi, Stefania Montorsi, Giorgio Pasotti, Diego Gianesini, Filippo Sandon, Marco Paolini, Marco Piras, Stefano Scandaletti, Manuel Donato; Luigi Mercanzin, Massimo Santelia; origine: Italia, 1997; durata: 116’. 
Porzus
Regia: Renzo Martinelli; interpreti: Gabriele Ferzetti, Gianni Cavina, Massimo
Bonetti, Gastone Moschin, Giuseppe Cederna, Giulia Boschi, Lorenzo Crespi; origine: Italia, 1997; durata: 110’. 
Il partigiano Johnny 
Regia: Guido Chiesa, dal romanzo di Beppe Fenoglio; interpreti: Stefano Dionisi, Andrea Prodan, Fabrizio Gifuni, Giuseppe Cederna, Alberto Gimignani, Claudio Amendola, Stefano Scherini, Chiara Muti, Umberto Orsini, Felice Andreasi; origine: Italia, 2000; durata: 135’. 
I nostri anni 
Regia: Daniele Gaglianone; interpreti: Virgilio Biei, Giuseppe Boccalatte, Piero
Franzo, Massimo Miride, Enrico Saletti, Diego Canteri; origine: Italia, 2001; durata: 88’.  
L’uomo che verrà
Regia: Giorgio Diritti; interpreti: Maya Sansa, Alba Rohrwacher, Claudio Casadio, Greta Zuccheri Montanari, Maria Grazia Naldi, Stefano “Vito” Bicocchi, Eleonora Mazzoni, Orfeo Orlando, Diego Pagotto, Bernardo Bolognesi; origine: Italia, 2009; durata: 117’.  
Torneranno i prati 
Regia: Ermanno Olmi; interpreti: Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco Formichetti, Andrea Di Maria, Camillo Grassi, Niccolò Senni, Domenico Benetti, Andrea Benetti, Francesco Nardelli; origine: Italia, 2014; durata: 80’.
 
                       

 

LA VIE D'ADELE, di ABDELLATIF KECHICHE (2013)

Una 'jeune fille' che cammina lungo una strada che si perde all'orizzonte di altre strade e case, una mattina prima di scuola: una 'jeune fille' seducente e provocante, più matura, più bella ma anche più triste per amore, che percorre sui tacchi un lunghissimo marciapiede. La macchina da presa che, all'inizio e alla fine del film, la riprende di spalle, lasciando che si allontani nel percorso ancora sconosciuto della sua vita...Tra questi due momenti scorre lungo tre ore dense eppure impalpabili il nuovo film di Kechiche, Palma d'Oro a Cannes. Un'opera che ci getta, dall'esordio con la lettura in classe di "La vita di Marianna" di Marivaux, attraverso le considerazioni filosofiche delle due protagoniste (superlative: Adèle Exarchopoulos e Léa Seydoux) Adèle ed Emma su "L'esistenzialismo è un umanismo" di Sartre, dapprima nell'universo chiuso degli adolescenti e della loro ricerca di senso e d'amore, poi, sorprendentemente, dentro un sentimento osservato da una distanza estremamente ravvicinata. E allora, ci ubriachiamo e ci stordiamo di quest'amore, raccontato attraverso primi e primissimi piani insistiti sui visi, sul volto di Adèle, in particolare, con una scrittura per immagini molto materica, che riesce ad andare oltre il prevedibile tabù del corpo, del sesso, del mangiare, dormire e fare l'amore, mostrati da così vicino.
Eppure, a dispetto della grande spregiudicatezza narrativa ed estetica, "La vie d'Adèle" non infastidisce e, anzi, incanta, emoziona, fa vibrare potentemente le corde emotive di chi guarda. Forse perché, come arriva a comprendere Adèle nella temporanea chiusa della storia, l'amore è vivere e sperimentare ogni cosa, ogni più piccolo evento, sentimento o emozione avvolti nella tela di ragno di un'estrema vicinanza.
Guardare, invece, richiede di riuscire a mantenere il giusto equilibrio tra vicinanza e distanza (quella stessa distanza che, anche al chiuso e nel buio di una sala cinematografica, ti permette di 'vedere').
L'amore, però, l'amore totalizzante, l'amore-passione di Adèle ed Emma è, per sua natura, cieco, autosufficiente e bastevole a se stesso: e il repentino distacco dei corpi non impedisce alla prima di continuare a soffrire per una distanza che risulta terribilmente difficile instaurare.
Distanze e vicinanze del cuore e dei corpi, in quella continua, destabilizzante oscillazione che sono i sentimenti: ma chissà su quali imprevedibili percorsi camminerà ancora la vita di Adèle.

Barbara Rossi